Volete sapere qual’e’ una delle prime cose che ho imparato appena atterrata a New York? Non usare mai il “BUT” (n.d.r. il “ma”), usare al suo posto “AND” (n.d.r. “e”).
La differenza? Facciamo un esempio.
Invece di dire: “I really like what you did, but next time add more pictures to the presentation“. Tradotto: “Mi piace molto quello che hai fatto, ma la prossima volta aggiungi più foto alla presentazione”
E’ meglio dire: “I really like what you did, and I was thinking that next time you could use more pictures for the presentation“. Tradotto: “Mi piace molto quello che hai fatto, e stavo pensando che la prossima volta potresti aggiungere più foto alla presentazione”.
Tutta questione di parole, direte voi. Certo. Ma e’ proprio di parole che viviamo, no? E allora perché essere “negativi”, anche -e soprattutto- quando si sta facendo una critica/osservazione? A volte una sola parola può cambiare il senso di un intero concetto. Rifletteteci.
E allora mi e’ venuto in mente quando, ero in terza superiore, un mio famigliare mi guardo’ e disse: “dov’e’ che vuoi andare tu?“. Come a dire: “non ce la farai mai”.
Io all’epoca sognavo di diventare una grande manager (non sapevo di cosa, ovviamente). Dovete capire che da piccola, mentre le mia amiche giocavano con le barbie (anche io ogni tanto eh, non ho avuto un’infanzia cosi infelice ha ha ha), io giocavo a fare la manager. In camera di mio fratello (che faceva grazio a Dio finta di niente) occupavo la grande scrivania di legno antico con libri, agende, liste, penne, la macchina da scrivere (!)… e facevo finta di chiamare – in diverse lingue- (no, vabbè se ci ripenso che ridere!) altri top manager in giro per il mondo…
Nonostante questo famigliare di cui mai e poi mai rivelerò in nome, ma lui lo sa.
Nonostante le resistenze interne in famiglia.
Nonostante un ambiente dove e’ più semplice “accontentarsi”, perché cosi fanno tutti, sono andata avanti. Sono andata al di la della cultura del no. Non mi sono arresa mai. Non mi arrendo manco adesso. Ogni no mi ha fatto e mi fa andare ancora più avanti. Il “no” per me e’ un “si travestito”, che io devo man mano, piano piano, spogliare…
Dire di si richiede di mettersi al lavoro, di porsi obiettivi e magari raggiungerli. Troppa fatica? Dire di no chiude i giochi: morta la, per dirla in veneto.
Cosi quando ho visto oggi per colazione Lorenza, che con gli occhi lucidi mi ha detto che leggendo il mio articolo ‘Sending the elevator down’ si e’ rivista nel suo paesino in Calabria, ho capito che questo e’ un nervo scoperto. E allora bisogna parlarne.
Gli americani sono certamente super positivi, magari troppo. E risultano “finti”, di tanto in tanto. Pero’ le cose le fanno, con entusiasmo, con determinazione, con cuore. Da noi e’ tutto bloccato. E allora facciamoci qualche domanda. E iniziamo a cambiare le cose. Iniziamo a dire più si. Preparandoci alle conseguenze: perché a dire di no, nulla succede. Si rimane li. Non si rischia. Non si vince nulla. E non si perde nulla. A dire di si invece si prendono grossi rischi. Ci si prova. E può andare bene. O magari no.
Ma ragazzi se non rischiamo un po’, che cos’e’ la vita? Io non me la immagino proprio, una vita senza qualche rischio, senza emozioni vere. Senza cadute. Dove ci si fa male. Ma poi ci si rialza, più forti di prima. Sara’ che io sono caduta forzatamente cosi tante volte che ormai non ci faccio più caso: “next! E si riparte.
Dite più si.
Provateci.
E poi ditemi se e come la vostra vita e’ cambiata…
Un bell’articolo! Hai proprio ragione, nella vita bisogna rischiare ☺
Il tuo racconto d’infanzia e della top manager mi ha fatta sorridere! Io quando ero bambina sognavo di fare la pasticcera, a 21 anni ho rischiato e ho aperto una mia pasticceria. Sono passati già 3 anni ☺
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